Attore-non attore-nuovo attore
Intervento di Eugenio Sideri su QUADERNI DI TEATRO CARCERE 7-8: IL NUOVO ATTORE
Sul come ho iniziato.
Ho cominciato a scrivere il mio primo “testo” nell’inverno del 1990, senza aver la minima cognizione di come o cosa potesse essere un copione teatrale. Scrivevo come se dovessi scrivere una lunga poesia. Frasi d’effetto, allegorie e metafore riempivano le dieci pagine che l’attore, Maurizio Lupinelli (detto “Lupo”) man mano imparava a memoria. Titolo: La mia casa. L’obiettivo sarebbe stato debuttare nell’estate del 1991 al Festival di Santarcangelo dei Teatri. Sezione nuove proposte.
Alle prove Lupo ripeteva il testo e io lo guardavo, in silenzio. Mi piaceva il mio testo, ne ero orgoglioso.
Nel frattempo avevo iniziato a frequentare le Albe di Verhaeren[1], in particolare Marco Martinelli (drammaturgo e regista) e sua moglie, Ermanna Montanari (attrice).
Ricordo la prima prova generale, alla quale Marco ed Ermanna assistettero, dove Lupo fu bravissimo: non sbagliò nemmeno una battuta. Era tutto perfetto.
Solamente che non avevo capito in cosa consistesse il teatro. E così andò, proprio a guisa di copione teatrale:
Lupo ha terminato la prova. Marco guarda Ermanna. Silenzio.
Marco Martinelli (si leva gli occhiali, respira profondo, accenna un sorriso e guardandomi negli occhi): Eugenio, che autori ami a teatro? A chi ti ispiri?
Eugenio (senza esitazione): Beckett.
Martinelli: “Qui di Beckett non c’è nulla”.
Silenzio. Marco guarda Eugenio e Lupo. Si rimette gli occhiali. Accenna un altro sorriso, ma comunque ha un’espressione e severa.
Martinelli: “Volete un consiglio?…buttate via tutto. E ricominciate”.
Lungo silenzio.
Sipario.
Era dicembre, o gennaio. Da lì fino al debutto, in luglio, riscrissi il copione integralmente altre 4 volte.
Sarebbe poi divenuta la mia pratica normale, o quasi.
Avevo capito alcune cose che, in seguito, sarebbero state fondamentali nel mio “fare” teatro:
- L’attore non è un dicitore, ma un essere di carne e sangue che mastica parole, le assimila, le digerisce e ributta fuori in scena. È in quel processo costante che il testo si costruisce
- Proprio per questo, scrivere per un attore piuttosto che per un altro può modificare il medesimo testo.
- Nel caso specifico di quel lavoro, c’era una forte suggestione, che invece avevo ignorato: il romanzo “Opinioni di un clown” di Heinrich Bö Da lì sarei dovuto partire.
- Capire la necessità fondamentale delle fonti, dello studio, dell’attingere alla letteratura, all’arte, alla musica, alla vita, insomma, in tutte le sue manifestazioni. E in più occasioni ho inteso il mio lavoro di scrittura, drammaturgia e regia, anche connesso o intrinseco a quello di dramaturg.
- Sapevo di non essere un regista, ma avevo intuito che Martinelli guardava con occhi e mani. Guardava l’attore per cui scriveva, e su di lui scriveva quelle battute. Quelle e non altre. Un altro attore probabilmente avrebbe significato altre battute.
Sulla non-scuola[2]
Per oltre dieci anni ho condotto laboratori all’interno della non-scuola. Lavoravo con gli adolescenti e poi, in seguito, ho trasferito la medesima modalità di lavoro anche agli adulti.
Per me vi era una netta distinzione tra questa tipologia di lavoro e quella che realizzavo con professionisti.
Non-scuola:
- Improvvisazione
- Testi della tradizione teatrale che vengono smembrati, riscritti, tagliati e cuciti
- I cori
- La guida non come regista
- Non una scuola di teatro, ma una esperienza “barbara”, costruita però sulle regole del teatro
Professionisti:
- Lavoro sul testo, fisso
- Scena come visione ed emanazione del regista
- Attore-esecutore
- Teatro come esperienza politica
Separavo distintamente le due esperienze, accorgendomi però, man mano che gli anni passavano, che ciò che cercavo dal teatro era più vicino all’esperienza con i ragazzi che con quella con i professionisti. Mi interessavano le modalità del lavoro con i non-attori e in seguito il lavoro con gli adolescenti prese per me un’altra piega, verso una PEDAGOGIA TEATRALE.
- La pedagogia è un fare politico del teatro, riuscire a trasmettere non solo l’esperienza del “fare teatro”, ma dell’atto teatrale stesso.
- Il lavoro con i ragazzi non è solo un lavoro di trasmissione di “saperi” teatrali, ma una trasmissione di cultura ed esperienza diverse da quelle spesso statiche della scuola
- La drammaturgia nasce come esperienza “promiscua”, attraversando la mia scrittura e le fonti, i “taglia e cuci” e le citazioni, la musica e l’arte
- La mia personale visione della scena si attua in una complicità tra scrittura sull’attore e visione registica della messinscena.
L’esperienza spartiacque è stata con lo spettacolo “Attolotta”, progetto finalista al Premio Scenario 1999-2000. Avvicinavo rock e pulp ai versi dell’Iliade, realizzando in scena la mia visione tra Quentin Tarantino e Caravaggio.
MR. ORANGE: È successo durante la siccità che aveva fatto sparire tutta la marijuana da Los Angeles nell’86. Non si trovava erba, ma io, che avevo più culo che anima, mi ero conservato lo stesso buon contatto.[3]
…e la mia versione:
Ettore : E’ successo durante la siccità che aveva fatto morire tutti gli animali a Troia. Dieci anni fa, sì, dieci maledettissimi anni fa, qualche mese prima che cominciasse questa assurda guerra. Gli uomini sopravvivevano e le donne crepavano.
Sullo scrivere sull’attore
Scrivo sull’attore, su come è la persona. La scena mi si disegna in testa. Divento regista scrivendo.
È la prima cosa che cerco, di fronte ad una mia messinscena: chi andrà in scena.
La seconda è il dove. Anche se la scena sarà nuda, o con 1 solo arredo (può essere una sedia, una bicicletta, o un intero fondale), devo sapere il dove. Diventa una sorta di sotto-testo, fondamentale anche per gli attori, oltre che per me che scrivo.
Un giorno ho di fronte un gruppo di venti adolescenti, lavoravamo sul tema delle mafie[4]. La scena, racconta di una ragazza albanese condotta in Italia con l’inganno e costretta a prostituirsi; dopo l’ennesimo tentativo di fuga, punito sempre con pestaggi, viene uccisa e abbandonata in un fosso.
Il problema era rendere la situazione credibile, ossia fare in modo che i ragazzi in scena non recitassero. Sembrassero veri. Invece recitavano, erano finti.
C’erano tre personaggi: lo zio, la giovane prostituta ingannata e la prostituta “anziana”.
La scena non funzionava. Era lunga. Ma più che altro era finta. Salgo sul palco. E chiedo loro di smetterla di interpretare.
“Tu sei Greta e tu sei Gaia,. Tu non sei Sarina o Tiziana (i nomi dei personaggi). Tu hai realmente 17 anni e tu pure. Sei tu che non hai scampo. Basta pensare. Lasciate a casa i pensieri. Qui sei non sul palco, ma in una stanza sudicia, maleodorante. In mano hai dei vestiti che non ti metteresti mai. Ti fanno schifo e te li sbattono in mano. Non si tratta di immedesimarsi, di far finta di. Vi trovate in una situazione così, e basta”.
Taglio qualche battuta e torno a guardare. La scena, adesso, funziona.
Il dialogo iniziale, scritto a tavolino (quello sbarrato) con a fianco le battute dopo la “trasformazione”:
Tiziana: (la interrompe). Ora tu vai su, appoggi la tua roba e torni giù vestita con quella roba che ti ho messo sulla sedia. Sbrigati che non possiamo fare tardi.
Sarina: Tardi dove?
Tiziana: Sbrigati. Te lo spiego dopo.
Sarina: (rientra in scena con in mano degli abiti da prostituta) Io non metto sta roba per andare al lavoro. Io non metto sta roba. Io non faccio la puttana!
Tiziana: Tu la metti.
Sarina: Non ci sono neanche le mutande! Tu sei matta? Si può sapere che cazzo devo fare? sei matta!
Tiziana: Tu adesso ti metti subito quelle merde di vestiti, vieni giù e poi ti porto dalle altre puttane. Adesso ti metti subito quelle merde di vestiti, vieni giù e poi ti porto dalle altre
Sarina: No.
Tiziana: Non puoi rifiutarti.
Sarina: Sì che posso.
Tiziana: Hai documenti falsi, o meglio, io ho i tuoi documenti falsi. Posso denunciarti quando voglio.
Sarina: (Getta a terra schifata i vestiti che ha in mano e scappa).
Tiziana: Dove cazzo vai? Troia, ti riempio di botte puttana! dove vai brutta deficiente! Ti ammazzo di botte adesso!
….
zio: Tiziana vede in Sarina se stessa, quando era più giovane, ora che lei è vecchia e non piace più ai clienti. Ora che lei è vecchia e può solo fare da madrina alle altre.
Tiziana: poi, una mattina scopro che si era messa da parte qualche soldo. I soldi della speranza. I soldi per fuggire. La vedo, e mi rivedo, 20 anni fa. Stesse promesse, stessi vestiti, stesse botte, stessi pervertiti. Stesso tunnel senza uscita. Dove vuoi andare? Sei solo una povera puttana…
Buio
Ancora una volta capisco che devo scrivere su di loro, e non come se fossi loro. Le parolacce, ad esempio, che inizialmente credevo potessero aiutare nell’esprimere una sorta di slang giovanile, mi accorgo che lo appesantiscono, lo rendono volgare gratuitamente. E lo rendono ancora più finto, recitato, non credibile. Non sono dunque necessarie.
Sulla difficoltà di essere veri
Stanislavskij la chiamava “reviviscenza”; loro, i miei gruppi di adolescenti che da anni seguo in vari lavori, non la chiamano. Sono. E basta. IMMEDESIMAZIONE NON è FAR FINTA DI, MA ESSERE.
Vero= credibile
Per me questo è il senso degli spettacoli che costruisco: essere credibili in un luogo (la scena) in-credibile. Non credibile. E’ in quel paradosso che vive il teatro. Essere veri dentro una scatola finta, ma che proprio grazie alle infinite possibilità che ti offre la finzione, può diventare vera.
Chiedere ad un detenuto di essere se stesso, rischia di diventare una richiesta con effetto contrario, e spesso anche con un adolescente. Con un professionista non ne parliamo.
I detenuti, anche per assenza spesso di scolarizzazione, intendono il teatro come “la recita”; non dicono “facciamo lo spettacolo”, ma FACCIAMO IL TEATRO (intendendo lo spettacolo). Spesso il momento del teatro è momento di “evasione”. Me lo dicono proprio: quando faccio teatro, per un’ora mi dimentico di stare qua dentro (intendendo il carcere).
Allora devo giocare un po’ d’astuzia e un po’ di mestiere.
- con gli adolescenti succede qualcosa di simile, con la differenza che spesso il teatro è ‘sfogo’, e allora lavoro su percorsi per “incanalare” l’energia di quegli sfoghi, in drammaturgia
- con i professionisti c’è l’aspetto “mentale, intellettuale” e la tendenza a “recitare”, come mettere in atto e in mostra tutto ciò che si sa fare
Lavoro su due cose, per molto tempo: le camminate e l’immobilità. Sulla presenza in scena. Da lì si parte, da quell’apparente “non far niente”, camminare, imparare a fermarsi e STARE. Stare significa esserci, non far niente ma essere presenti. Imparare ad ascoltare i rumori che ci stanno intorno, e quelli dentro di noi. E a raccontarlo con un corpo immobile e non-fermo, ma in-energia. Le spalle, le ginocchia parlano, poi gli occhi e la maschera facciale.
Racconto spesso dell’Iliade, di come le ginocchia siano più volte caratterizzazioni di personaggi (Ettore ginocchia veloci, o anche Priamo che abbraccia le ginocchia di Achille), e pure di morte (si sciolsero le ginocchia, significa appunto cadere, e morire). Li faccio provare a perdere le ginocchia, a cadere. Ridono. Però capiscono immediatamente il senso della presenza scenica, la difficoltà di “star lì anche senza far niente”. La fatica di questa non-azione. E, credo, iniziano ad intuire il senso e il valor della scena, fuori dalla “recita”.
Aymen è un detenuto con tre figli piccoli, che vivono in un centro accoglienza, senza la madre. Non capisce, e come lui gli altri detenuti, il viaggio dentro la “selva oscura” dantesca. Non hanno il livello metaforico. Ma sa cosa significa sentirsi soli, abbandonati, persi. Sa quanto gli mancano i suoi figli, che a malapena riesce a vedere 1 volta al mese, per 1 ora. Gli spiego che questo suo dolore è la sua ricerca di luce, come quella di Dante. Che per lui Virgilio è quel padre che lui/Aymen non ha avuto e che invece avrebbe voluto. E che lui, Aymen, deve cercare Virgilio come lui stesso cerca i suoi figli: con gli occhi dell’amore. Subito le prove di Aymen assumono un aspetto diverso: si fa figlio (e padre) che invoca un padre (Virgilio). Il tema che abbiamo, come Coordinamento, è proprio questo: Padri e Figli. Aymen lo sta vivendo, anche se pronuncia versi di Dante di cui, non sempre ne capisce il senso e il significato. Ma li vive. “E’ ” quelle parole.
Il suo lavoro mi ha, nuovamente, dimostrato quanto l’esperienza personale dell’attore sia importante, quanto il suo scavo. Che però va rigidamente incanalato. Mi colpisce vedere quanto spesso le parole di un copione possano esser bellissime, ma non avere nessun valore in scena, se la presenza dell’attore non è in grado di trasmetterle. Le parole, da sole, non arrivano (allo spettatore).
Questa tipologia di lavoro, adottata con i non-attori, mi ha aiutato molto con gli attori professionisti, specie nella identificazione di “intenzioni” concrete che possano aiutare la costruzione di un personaggio e, ancor di più, la realizzazione di un’azione o di una battuta.
A volte con i detenuti è “facile“ individuare l’intenzione: hanno un retroterra semplice, immediato, fatto di esistenze drammatiche ma non complesse. Esistenze segnate fin dall’infanzia, quasi irrimediabili. Si tratta allora di avviare un processo di empatia: provare a guardare il mondo con i loro occhi. Senza smettere di avere i nostri.
CIRO: Il mondo è pieno… (Ciro avanza) è pieno d’amore, e io Ho voluto la mia solitudine (.) sono senza amore, mentre, barbaro o miseramente borghese, il mondo è pieno, pieno d’amore… e sono qui solo come un animale senza nome: da nulla consacrato, non appartenente a nessuno, libero di una libertà che mi ha massacrato.[5]
È l’inizio dello spettacolo[6]. Due bambine sono in scena e chiedono di loro padre. Dov’è? Come sta? Ciro (detenuto, padre di un bimbo e a sua volta figlio) entra e le guarda. Loro non devono vederlo, come se fosse un fantasma.
È una immagine che mi hanno regalato i detenuti: il desiderio di poter immaginare di essere vicini ai loro cari.
Poi l’intenzione di battuta. Chiedo a Ciro di stare fermo, rilassato. Lasciare giù le spalle, guardare le bimbe e respirare, e poi guardare il pubblico, pensando ai versi di Pasolini, ma al contrario: eri libero (fuori dal carcere) e hai abusato della tua libertà… hai una figlia, che ami tantissimo, ma ti ritrovi solo, in una solitudine a cui sapevi di andare incontro, vivendo in un certo modo.
Ciro capisce e trova subito il tono giusto di battuta. Resta troppo rigido, perché la scena lo emoziona, e si irrigidisce. Ma ha capito. Nel corso delle prove, man mano, scioglierà anche la schiena e le spalle, così da rendere assolutamente naturale e credibile la sua battuta, eseguita apparentemente senza sforzo, senza essere finta, ma detta come se fosse una citazione personale.
Sul riveder le stelle
Sia l’Inferno che il Purgatorio danteschi terminano con l’invocazione “a riveder le stelle”. Nel 2018 lo spettacolo in carcere era stato sul Purgatorio, chiara metafora della condizione dei detenuti, come terra di passaggio.
Facevamo le prove nel cortile interno, la sera, e noto per caso che, da lì, causa inquinamento luminoso, non si riuscivano a vedere le stelle. Prendo la palla al balzo e scrivo un pezzo, pensando già che lo avrei fatto interpretare ad Antonio, detenuto napoletano dotato di una verve comica notevole: un caricaturista, abituato a scherzare, far smorfie e battute. Proprio in vista di questa sua indole gli chiedo prima di tradurmi il pezzo in napoletano, e poi di ridurre tutta quella che poteva essere la sua mimica naturale. Provavo a incanalare l’energia.
Mentre scrivevo pensavo a lui, alla sua famiglia, a quello che avrebbe potuto vedere nel suo immaginario, nel cielo. E pensavo al suo desiderio di uscire… che mancavano pochi mesi… e giurava che non sarebbe mai più voluto rientrare…
Il primo stop, però, avviene nella traduzione: Antonio aveva realmente riscritto il testo, ma in un napoletano a noi “del nord” incomprensibile. Quindi gli chiedo una seconda traduzione, più italianizzata. Mugugna e non è d’accoro, dice che allora non è più napoletano… ma riesco a convincerlo, e il testo diventa così:
ANTONIO: E po’, a guardarlo bben’ chistu cielo, la’ ‘ncopp, da ‘cca bascio nun se vede bbuono, ce stanno ‘e luci da’ città…. ma ce stanno … oh se ce stanno… ce stanno ‘e stelle, che fanno ‘e forme comme ‘e nuvole… tu guardi ‘ncopp e vedi ‘nu galeone, e po’ ‘nu gatto, ‘na casa… proprio tale e quale a chella ca tieni… cu ‘a cammera da lietto, ‘a cucina, ‘o salotto…. mugliereta e ‘e figli… stanno là e io sto ‘cca, ma se è overo…. se chistu purgatorio è overo che… shhh… lo dico chiano chiano pecchè se parlo tropp’ fort va a fernì ca nun se avvera…. ca quann’ cade ‘na stella, esprimi ‘nu desiderio… e mò però nun me facite dicere tutte cose….- succede ca Dante continua ‘o viaggio suoio… ma ne riparlamme… sicuramente ne riparlamm’… magari non cu mme, ca spero ‘e nun stare chiù qua, ma ne riparlamme, sicuro… e mò guardate la ‘ncopp’ e shhh… non lo dicite…. nun ‘o dicite, se no, nun s’avvera…..
All’interno dello stesso spettacolo avevo già usato lo stesso espediente, riflettendo con i detenuti sul senso della giustizia (tema che in Dante è sempre presente). Ascoltavo le loro lamentele, le storie di una giustizia spesso incarnata da avvocati prezzolati, da ritardi, da errori giudiziari. Storie a cui, spesso, venivo invitato dalle educatrici a non credere fino in fondo, ma che comunque un fondo di verità avevano. Li costrinsi a camminare rabbiosamente per il palco e a gridare. Scrivevo con la loro voce, con la loro rabbia.
AYMEN: Quale sarà il nostro destino?
CORO: Quale sarà il nostro destino?
CORRADO: Quanto dovrà passare perché il giudizio avvenga?
CORO: Quanto dovrà passare perché il giudizio avvenga?
PIETRO: La legge non è uguale per tutti!
(Tutti si fermano e lo guardano)
PIETRO: A volte la legge non è uguale per tutti….
Quest’ultima battuta, inizialmente, non c’era. Lo stop avveniva con : ”La legge non è uguale per tutti!”, ma mi venne fatto notare dall’esterno, durante le prove, che era una affermazione troppo forte, specie se detta dai detenuti. Aggiunsi quel “a volte”, e stavolta nessuno ebbe nulla in contrario… e l’effetto fu decuplicato!
Si fa silenzio. Si fermano tutti e guardano Antonio.
ANTONIO Tieni ragione. ‘E alle volte pare proprio accussì… ma nuie chi simmo, in fondo, per giudicare? Pe’ dicere: tu sei chiù bello ‘e me! Tu sei bravo e tu no! Tu hai arrubbato…e pure io aggio arrubbato, e allora stong’ qua dentro…. ma po’… po’ che succede? Perchè po’ vene ‘o giorno ca nun se ruba cchiù… che non se paga cchiù, vene ‘o ghiuorno che là, ‘nCielo coccherun ce guarda e ce dice: Antò, ssì sì…proprio tu… dici a me? Si si proprio a te’! in fondo si stato ‘nu bravo gualglione…veni accà… e allora penso che il purgatorio già ce lo facimmo… ce lo facimmo qua…
Eugenio Sideri
Scritto nel mese di Aprile 2020, Covid-19
(Un ringraziamento speciale a Carlo Garavini, compagno di viaggio nelle esperienze di teatro in carcere e con i gruppi di adolescenti, e Tonia Garante, per la preziosa trascrizione napoletana)
[1] In seguito presero il nome di Teatro delle Albe; dal 1991, insieme a Drammatico vegetale, fondarono la cooperativa Ravenna Teatro, Centro di Produzione Teatrale.
[2] Riguardo la tipologia di lavoro della non-scuola, si veda il sito del Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
[3] Le iene, di Quentin Tarantino
[4] Progetto “Shakespeare si scrive con l’h”, realizzato nelle stagioni 2017-2018 e 2019 con un gruppo di venti adolescenti, provenienti dal Liceo Classico “Dante Alighieri”, Liceo artistico “Nervi-Severini” e scola professionale arti e mestieri “Pescarini”, di Ravenna. Tre gruppi eterogenei, sia come contesti familiari, che sociali, scolastici e culturali. Guidavamo il gruppo io e Carlo Garavini.
[5] P.P. Pasolini, Ho voluto la mia solitudine. Ho barrato le parole dei versi originali, che non abbiamo usato
[6] Libertà va-n cercando…, spettacolo realizzato nel 2018 all’interno della Casa Circondariale di Ravenna