Predatori e prede

Ri-partiamo da Shakespeare, anche quest’anno.
19 ragazzi e ragazze da tre istituti diversi.  Liceo claasico “Dante Alighieri”, Liceo artistico “Nervi-Severini”, Istituto professionale “Pescarini”. Ravenna.
Età media: 15 anni.

 

Quasi nessuno/a ha mai fatto teatro. Quasi nessuno/a sa di cosa stiamo parlando.

Mi spiego.

Alla domanda: sapete cos’è la mafia, le risposte sono poche, confuse e più che altro fondate su alcuni luoghi comuni: la mafia si occupa dello spaccio di droga, della prostituzione, la mafia uccide le persone per bene, etc etc

Do allora un compito: portatemi un articolo di giornale in cui si parli di mafia.

La settimana successiva il gruppo si presenta: mi aspettavo fogli, ritagli, giornali e riviste. E invece nulla. Sto quasi per arrabbiarmi, ma prima di esplodere chiedo: non avevo forse dato un compito? E la risposta, generale, è “sì certo, eccolo”. E mi mostrano i cellulari. Ognuno aveva cercato e trovato qualcosa su internet… e nessuno aveva pensato di stamparla… era sufficiente portare l’articolo on line… questo era sufficiente, secondo loro! L’idea che possa, in un giorno remoto, esistere un copione cartaceo, sembra lontana anni luce!

Ad ogni modo non mi scoraggio e faccio leggere i risultati della ricerca: la maggioranza avevo portato frasi, memoriali o commenti su Falcone e Borsellino. Qualcuno parlava di Totò Riina. In due avevano quasi imparato a memoria la definizione di mafia estrapolandola da Wikipedia.

Ok, capisco che occorrerà rimboccarsi le maniche. E non demordo.

Ri-partiamo da Shakespeare. Macbeth.

Racconto la trama. Restano affascinati. Il sangue e le streghe portano tutto su un ambiente horror, e la fascinazione, appunto, è immediata. Allora ne approfitto e cavalco l’onda.

Perché Macbeth vuole diventare re? Una volta che è re, a cosa gli serve esserlo? In fondo, gli dico, da quando diventa re i suoi problemi (pericoli, nemici, insidie) aumentano. E allora perché questo inseguimento sanguinario e affannoso della corona?

La risposta arriva: potere. Per il potere.

Ricavalco l’onda.

C’era una volta un capo-mafia che aveva trascorso più di dieci anni chiuso in una micro-stanza ricavata dal forno di una pizzeria. Una micro-stanza, in cui non poteva nemmeno stare in piedi. Quando lo hanno trovato, lì nascosto in clandestinità, dopo oltre dieci anni, nel nascondiglio aveva un game-boy e alcune riviste pornografiche. Da lì, per oltre dieci anni, aveva governato i traffici internazionali della droga, dalla Colombia all’Italia e poi all’interno dell’Italia. Da lì, da qual bugigattolo, aveva comandato la morte di alcuni nemici, il pagamento del pizzo di altri, aveva fatto inviare le mazzette a certi politici. Da lì, da quel bugigattolo, gestiva il suo potere. Non è che se ne andasse in vacanza alle Maldive, che girasse su una Ferrari, che fosse circondato da splendide ragazze? No, niente di tutto questo. Se ne stava rattrappito con un Nintendo. Per dieci anni.

E allora cosa gli serviva essere un boss? A cosa gli serviva avere il potere? Come a Macbeth: a cosa gli serve essere re?

Gli serve a far sapere a tutti che lui è il re.  Che lui è il boss. Che lui ha il potere della vita e della morte, e non solo la vita e la morte intesa come esistenza fisica delle persone, ma intesa pure come esistenza lavorativa, professionale, commerciale, di ogni tipo di attività. Legale o illegale.

Le risposte erano chiare. Il messaggio era arrivato. Potevamo partire.

La seconda ri-partenza era una domanda: cosa fareste, voi, se vi capitasse la stessa cosa che è successa a Macbeth? Cioè, cosa fareste se incontraste qualcuno che, mentre tornate a casa da scuola, vi dicesse che domani sarete assessori della vostra città, dopodomani sindaci e dopo dopodomani, alti funzionari con importanti ruoli decisionali nel vostro Paese?

I ragazzi restano ammutoliti… sono giovani, molto giovani, e ancora l’esperienza di vita e la vita stessa ancora non li ha troppo messi in gioco, ma dai loro sguardi si capisce che hanno compreso.

Ri-partiamo, allora, per la terza volta: dov’è la mafia? C’è anche qua, in Emilia Romagna? E a Ravenna, nella nostra città? Questa volta chiedo stralci di giornali, cartacei.

Fa parte del lavoro teatrale: avere tra le mani un copione, un appunto, qualcosa di tangibile, ti rende più consapevole. È come dire: mi piacciono i cani ed averne uno. Come fai a sapere se tira o no quando lo porti al guinzaglio? E se incontri un altro cane? E quanto tira?

Il copione, e tutto quello che potrebbe diventare tale, si deve poter toccare, riscrivere, correggere, cancellare. E occorre averne cura, come di noi stessi, come del nostro corpo, dei nostri sguardi, dei nostri gesti. La scena, il teatro, si impossessano di tutto questo e ce lo amplificano, lo esaltano e, se non lo dominiamo, ce lo ribaltano contro annientandoci. Bastano pochi esercizi e tutto questo viene immediatamente appreso.

Ora occorre farci l’abitudine.

Arrivano gli articoli, le informazioni. È fatica renderli “teatro”.

La domanda è: come facciamo a trasformare in teatro questa notizia?

E qui comincia il lavoro di creazione. Prendo alcune frasi, ne aggiungo altre, mi confronto con gli assistenti, poi coi ragazzi, e poi magari prendo un altro articolo sullo stesso argomento, e proviamo a trasformare le frasi in un dialogo. In battute. E si comincia ad assegnare: tu dici queste, tu queste altre, voi in coro queste. Entrate, uscite, posizioni, una musica di sottofondo. La creazione li affascina. È chiaro, per me e per loro, che abbiamo tra le mani della materia informe che man mano prende forma. Man mano si fa scena. Si fa teatro

E Shakespeare? Che fine ha fatto?

Diventa cornice dell’opera, pre-testo cu cui costruire l’inizio. E proseguire altrove.

Li guardo e spesso mi arrabbio: sono pigri, svogliati, chiacchieroni… eppure, eppure il teatro mi ha insegnato ad attendere, come un paziente pescatore. Attendere l’inaspettato. Quella scintilla che scocca, e quando scocca tutto si infiamma e prende vita.

Così, come quando arrivo alle prove leggermente in ritardo e li trovo in cerchio, nei camerini, a “fare memoria”, ripetere cioè le parti a loro assegnate. È la parte più noiosa e faticosa, per loro, giovani attori e attrici, la memorizzazione. Eppure sono lì, senza di me, senza nessun adulto che li guidi, e stanno facendo memoria.

Io, che mi aspettavo di trovarli al cellulare, a chiacchierare… perché spesso li avevo trovati così… ripiegati su quei piccoli schermi a chattare, a guardare mondi lontani o vicini e poi, quando invece sono alle prese con i loro corpi, le loro voci, eccoli farsi piccoli e impotenti…

E invece ora stanno facendo memoria e appena arrivo mi chiedono di provare le scene…

E poi, quasi a caso, provare a fare quella scena al buio, illuminati solo da delle torce elettriche… gli uni che illuminano gli altri… ebbene, al termine della scena, scatta un applauso…un fragoroso applauso, spontaneo, dalle loro stesse mani. Accendo la luce e li vedo contenti. Entusiasti. Uno dei maschietti scende dal palco e mi abbraccia. Sei un grande, mi dice. È stata un’idea bellissima questa delle torce.

Li guardo, e ribatto: siete voi i grandi, siete voi a procurarmi buone idee…

Ridiamo, con gusto.

Ce lo meritiamo, quell’applauso che nuovamente sgorga spontaneo.

Eugenio Sideri e Carlo Garavini