Il teatro come bellezza alla distruzione del mondo

di Eugenio Sideri

 

Il Progetto Dante nasce nel 2007/2008; due insegnanti, Tiziana Grillanda e Antonia Gerardi mi contattano. Hanno un sogno, ci credono, e mi convincono. In tre anni raduniamo, tra Ravenna, Ferrara e Lugo, duecento adolescenti e compiamo un viaggio tra musica, teatro e danza nella trilogia dantesca di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Portiamo in scena le terzine, l’endecasillabo, ma più che altro portiamo le loro storie, quelle parole che ci raccontano alle prove, negli incontri che facciamo chiedendoci, noi con loro, che senso ha oggi leggere Dante. E cercando, noi con loro, di capirlo. E portarlo in scena.

Non potrò mai dimenticarmi “Enter Sandman”, un brano dei Metallica: senza quel brano non saremmo riusciti ad entrare “nella città dolente”. Loro, i ragazzi, lo proposero. Lo suonarono durante una prova e  fu la chiave giusta per entrare nello spettacolo, per parlare, di e con, Dante. Ci voleva un omino del sonno, o meglio, un omino dei sogni, perché quello che stavamo iniziando a realizzare era veramente un sogno. Dal quale continuiamo a non svegliarci.

Chiudiamo la trilogia dantesca e realizziamo altri spettacoli, fino a che nel 2013 il progetto si stabilisce esclusivamente a Ferrara, all’interno del Liceo sociale “G. Carducci”.

La crisi economica colpisce anche il nostro progetto, ma decidiamo di non mollare e investiamo sulla fatica. E partiamo con la tragedia greca.

Antigone, due anni di lavoro e poi Medea, altri due, ed infine il biennio su Elettra. Ci accompagnano Heiner Muller e Christa Wolf, Sofocle ed Euripide. Pensieri e parole. Voci che rimbalzano dentro.

Il gruppo riparte, rinvigorito. La tragedia sembra gridare la sua attualità direttamente sulla pelle dei ragazzi.

Antigone è eroina ed è coro. Le azioni e le voci, il teatro che man mano nasce sul testo sofocleo, sembrano sorgere all’improvviso, ma in realtà spesso li guardo e mi sembrano fonti naturali, zampillanti, terreni in cui, una volta individuato il punto giusto, l’acqua sgorga naturalmente.

Medea la barbara, che sta a testa alta, che ha il visto illuminato, isolato dal resto, solo il viso in luce. Nascono allora le torce elettriche che ognuna delle ragazze tengono puntate sui loro visi. Il coro, le Medee, non hanno necessità di illuminazioni esterne. Sono barbare, forti a sufficienza ad illuminarsi da sole.

Elettra e la morte, che rotola come la testa di Agamennone, che si impossessa del sonno e dei sogni, che trasforma la realtà in incubo.

 

Il coro e il personaggio.

Il progetto Dante si propone con una modalità di lavoro in cui “tutti sono importanti, ma nessuno è indispensabile”. Lavoro di squadra, lavoro di banda. Guerrieri e guerriere, uso chiamarli io. Lavoro in cui la voce e il corpo vengono ri-trovati attraverso esercizi in cui la tecnica teatrale si abbina alla messa in gioco personale, individuale e collettiva. Il lavoro sui testi permette, in modo diretto, di affrontare esercizi sulla percezione dello spazio, sull’ascolto, fisico ed emozionale, sulle potenzialità del corpo, della voce, della persona. La riflessione sui testi avviene collettivamente, e raccoglie grande parte del lavoro: è da essa che parte la scena ed è ad essa che la scena si rivolge.

Li guardo, intorno a me, e sento forte la polis, quella antica, quella greca, quella che ci ha insegnato il teatro e la democrazia, il saper parlare con gli dei e fra uomini. E in questa polis che sto ri-vivendo, mi ritorna ad alta voce il senso “politico”, il valore civico del progetto che stiamo realizzando: non si tratta “solamente” di realizzare spettacoli, ma di una vera e propria esperienza di vita.

Ancora una volta l’indagine nel tragico e nella tragedia ci porta “terribilmente” a confrontarci con la contemporaneità. I ragazzi, seppur giovanissimi e molto spesso sprovvisti di conoscenze letterarie e/o storico-filosofiche necessarie per affrontare adeguatamente il tema, ebbene proprio loro sembrano invece riuscire ad intuire il senso profondo della tragedia.

E’ un livello intuitivo, epidermico inizialmente, che poi si scatena nei loro corpi, e li muove. E’ come se, quasi “animalescamente”, il tema tragico li colpisse ancor prima che a noi adulti, muniti di strumenti intellettuali.

L’essenza del tragico e della tragedia sono riversati dai ragazzi, sulla scena, con una dose di verità e di attualità incredibili. Lo stupore che mi conduce, ogni volta, nel lavoro con loro, è proprio quello di osservare come la durezza del tema, delle parole, delle invenzioni sceniche utilizzate, li sproni e coinvolga maggiormente che testi e temi più semplici. E’ come se la sfida che raccolgono gli permetta di manifestare realmente le loro potenzialità e dia loro la possibilità di gridare al mondo le loro urgenze.

 

 

 

2018-2019

Trilogia della vita

 

 

È venuto il momento di raccogliere le esperienze di questi anni e metterle a frutto. Non si tratta di mettere un punto, o almeno non solo. Si tratta di legare le voci (sì, proprio le voci) e i lavori emersi in questi anni e dare loro un filo comune, una strada che non solo attraversi il passato, ma ci permetta di percorrere il presente, verso il futuro.

 

“…E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l’eterno…”[1]

 

Penso ai maestri antichi, alle loro voci, a quelle parole che si sono mescolate alle nostre.  Penso a Sofocle, a Euripide, ad Omero e guardo il mio gruppo, la mia banda,  i miei “guerrieri e le mie guerriere”, adolescenti inquieti, sgrammaticati, bizzarri e persi, che però custodiscono il senso profondo della vita. Ma non lo sanno. Non se ne accorgono. A volte è sufficiente mostrargli quel punto di vista che mai avrebbero immaginato, ed è lì, accanto a loro, a pochi centimetri. A volte occorre urlare con loro, gettarsi nella mischia e cercare la rivolta, e a volte occorre chetarsi con loro, assopire i sensi e le passioni e lasciare che a piedi nudi e bendati attraversiamo ponti sospesi della fantasia.

Penso a questo gruppo di adolescenti e penso ad Ulisse, al nostro essere pellegrini e vagabondi, per tornare a casa… penso alla tempesta continua che la vita ci fa affrontare lungo la strada che crediamo verso la fine, ma in realtà è un ritorno… e allora, anche se la riva a volte è lontana e invisibile ai nostri occhi, allora mi piace sentirmi così, con la coscienza di un uomo che sa di non sapere, e viaggia per farlo, e incontra tempeste… e allora “è dolce naufragare in questo mare”.

Questo, tutto questo percorso, verso uno spettacolo conclusivo, si fa infinito.

Perché la presenza di un istante si fa eternità.

Questa è la lezione che impariamo, di prova in prova: essere presenti sulla scena per vivere eternamente la vita. Un ossimoro, forse, ma reale. Perché il teatro ci fa vivere gli attimi, uno dopo l’altro, concretamente, ci sollecita ad essere veri, concreti, pieni di vita, non accetta la finzione, quella “finta”, quella in-credibile, ma esige la nostra precisa essenza. Il teatro vuole che Siamo, con la s maiuscola.

Questo, tutto questo è il percorso raccolto in questi anni e che ora deve proseguire.

 

Tre figure femminili che raccolgono l’essenza del tragico: sangue che scorre, sangue che pulsa, sangue che insegue la vita.

L’antico si fa presente che si fa futuro.

Ecco lo scavo che cerchiamo questa volta. Raccogliere le esperienze per concentrarle in un unico evento che abbia il respiro del futuro.

 

Le figure di Antigone, Medea, Elettra le raccogliamo attraverso alcune pagine di Sofocle ed Euripide, e da loro avanziamo accompagnati anche da Heiner Müller,  da Christa Wolf e dalla Szymborska, e da parole che il gruppo stesso ha scritto.

Lo studio delle scritture dei tragici ci obbliga a riflettere sulla vita e sulla morte. Non è troppo presto, anche se sono “solo” adolescenti.

“Non avete ‘solo’ 15, 16 anni. Avete ‘già’ 15, 16 anni”. Questa è la regola che dò. Impegnarsi, mettercela tutta, mettersi in gioco, aiutarsi a vicenda, rispettare e rispettarsi. Queste sono le regole del ‘branco’ che porto in scena. Attraverso queste l’azione scenica diventa più semplice. Ogni istruzione teatrale si fa immediata. La voce, il corpo, vengono guidati da una passione che rende tutto più facile.

Non ci si stanca a provare e riprovare le stesse scene, perfezionandole di volta in volta. Il risultato non è solo “il bello spettacolo”, ma aver realizzato qualcosa di grande per se stessi, e per gli altri, compagni e compagne di squadra e spettatori.

Ragionare e mettere in scena la tragedia antica ci migliora come persone, ci fa Uomini e Donne con la maiuscola. Perché indaghiamo sul senso antico e profondo i cosa muove le nostre azioni, di cosa fa ribollire il sangue, della passione e dell’ardore. Diventiamo protagonisti e non comparse della vita.

E ci sentiamo felicemente naufraghi nel mare della vita.

[1] Giacomo Leopardi, L’Infinito